Se utilizzassimo la tecnica del timelapse, oggi in voga su internet e alla tv, che consiste nel raccontare in pochi secondi o minuti, attraverso il montaggio iperveloce di immagini, eventi svoltisi in tempi estremamente lunghi (come lo sbocciare di un fiore o il movimento del cielo stellato) potremmo raccontare tutti gli anni Sessanta con qualche foto dei Beatles intervallate da poche altre. Per esempio, una istantanea di Dylan, di Kennedy e di Luther King, passando per Monterey e Woodstock e terminando con Che Guevara e Charlie Manson. Ed instantanee dal Vietnam, dalla Luna, da Praga e dalla Cina, dalle università americane ed europee. Gli anni Sessanta sarebbero racchiusi tra la nascita e la fine dei Beatles. Ma raccontare oggi i Beatles è compito non semplice. Occorrerebbe viaggiare nel tempo per recuperare le dinamiche che hanno cambiato una generazione, per sollevare un velo sul mistero di un cambiamento talmente radicale che è ai limiti dell’incomprensibile, soprattutto dopo tanti anni. Occorrerebbe spiegare come quattro ragazzi di Liverpool, cantando delle canzoni che oggi ci appaiono leggere anche se piene di vita, abbiano innescato un processo di autocoscienza collettiva in una generazione che di colpo non aveva più barriere geografiche e si scopriva planetaria, mondializzata attraverso dei riferimenti culturali e politici che superavano censure e negazioni, animata dalle stesse proiezioni desideranti, dagli stessi sogni collettivi: questo il vero problema di una storicizzazione dei Beatles. Ma non solo. La dinamica industriale e commerciale innescata ha creato, rivelandolo, un mercato enorme, quello della gioventù e i suoi prodotti derivati. Esperimenti di marketing oggi pienamente maturi, dunque, si sono intrecciati ai movimenti culturali e politici in gestazione. E questo perché in quei quattro ragazzi di Liverpool si sono specchiati milioni di ragazzi nel mondo intero, migliaia di aspiranti musicisti che come loro avevano qualcosa da dire. Ed ancora: una intera classe politica planetaria ha dovuto tenere conto dell’onda suscitata dai Beatles, in due-tre anni sessualità, diritti politici, libertà di azione e di pensiero, parità uomo-donna, uso delle droghe, ecologia, mixità culturale, nuove religioni, sono divenuti ovunque movimenti irreversibili spesso innescati da pensieri che attraversavano le frontiere con la musica. Come dirà una canzone hippy del 1967, “attraverso le nazioni c’è la stessa vibrazione… una nuova generazione vuole nuove spiegazioni”. Un fenomeno, si dice spesso sia dei Beatles che degli anni Sessanta, irripetibile. Il concorso di circostanze, il momento storico, il confluire di tutta una serie di fattori, etc, etc.. Anche ad Oxford si sentono impotenti. L’inizio della voce “Beatles, the” nel “The Oxford Companion to Popular Music” dichiara la loro dimensione particolare: “Gruppo della scena rock britannica. Ogni storia o indagine sociologica della Gran Bretagna degli anni Sessanta dovrebbe includere una sezione dedicata al fenomeno Beatles. Sono chiaramente il più importante gruppo della storia della musica pop, la loro influenza è incalcolabile” (Gammond, Peter. The Oxford Companion to Popular Music. Oxford: Oxford University Press, 1993, pag. 46). Notare “ogni storia o indagine sociologica della Gran Bretagna”, è quello il punto. Hanno oltrepassato le frontiere di genere (la musica) per entrare nel magma sociale generale. Non solo nel Regno Unito ma nel mondo intero, dobbiamo ormai aggiungere. Per raccontare quella influenza e dare il polso dell’epoca, potremmo iniziare ricordando alcune reazioni di casa nostra, un misto di disprezzo e lontananza che emergono sulla stampa italiana e registrano lo sconcerto di una classe intellettuale bloccata verso il passato. Per Pasolini e Strehler i Beatles sono incomprensibili, privi di fascino, il loro enorme successo un mistero. Chi li paragona a Peppino di Capri, chi come Milva non comprende ma apprezza. La tournèe italiana del 1965 vede l’irrompere dei Beatles su un paese in bianco e nero, bloccato, a vent’anni dalla fine della guerra perduta, in procinto di entrare nel secondo tempo di una guerra civile mai terminata. E a Roma e Milano l’arrivo dei Beatles provoca le prime “manifestazioni”, migliaia di giovani che forzano i cordoni della polizia, le prime manganellate, i primi arresti. Una sorta di prova generale, dopo Tambroni e prima della Facoltà di Architettura a Roma. I giovani italiani, nonostante un perbenismo soffocante e un sistema dell’informazione paternalista e autoritario, si mostreranno più intelligenti dei loro padri e tutori. Nel giro di pochi anni, dal 67 al 77, riusciranno a tutti i livelli a generare il cambiamento. Attraverso il dolore e la sofferenza, ma anche attraverso la gioia e la rivoluzione, come in tutto il mondo nello stesso momento. Antonioni, che include i beats londinesi in “Blow Up”, nello scena del concerto degli Yardbirds immobilizza i ragazzi-spettatori come degli zombie senza vita, dandoci un giudizio estremamente conservatore e carico di disprezzo su una generazione che avrebbe cambiato il mondo, o almeno avrebbe tentato di farlo, in parte riuscendoci. Tutto ciò rientra nelle dinamiche di assimilazione o rifiuto politico che agitano il mondo simbolico. Le società di massa sono al tempo stesso articolate e disarticolate dai prodotti culturali. Il fenomeno dei Beatles può essere letto come una possibile articolazione (creazione di mercati vergini, colonizzazione dell’anima) o anche come una disarticolazione delle società passate (rottura degli schemi di relazione tra padri e figli, rottura delle gerarchie sociali, internazionalizzazione dei mercati e delle mitologie nazionali, in una parola una sorta di mondializzazione ante litteram). O come una autonoma auto-ristrutturazione a partire di prodotti industriali, come in effetti è stato. Il mondo giovanile ha usato i Beatles per cambiare le regole del gioco. Se l’industria culturale è nata per colonizzare il mondo, rendendo merce i sogni e organizzandoli in linee di produzione seriale (film, musica, libri, giornali, tv, etc.) dobbiamo anche ammettere che i Beatles sono stati tra i prodotti più riusciti di questa industria. In più, sono arrivati sulla scena quando le stelle del nuovo Olimpo della cultura di massa riempivano schermi e copertine e facevano delirare le masse. Tra Marlon Brando, Elvis Presley, Brigitte Bardot, tra scrittori e principesse, sportivi e astronauti, il nesso, in quegli anni Cinquanta e Sessanta, era la giovinezza e (spesso) la bellezza. I Beatles rientrano in entrambe le categorie e diventano, anche per questo, star planetarie. Gli eroi son tutti giovani e belli, cantava Guccini. Ma le motivazioni dei Beatles cambiano in itinere. Iniziano quasi per gioco e diventano coscienze planetarie di una gioventù in evoluzione. La comunità giovanile aveva già eletto due simboli tra quelli che si affacciavano sulla tribuna delle celebrità, Elvis, re del rock, e Dylan, che con Martin Luther King era alla marcia di Washington del 1963, portavoce politico: in aggiunta i giovani hanno plebiscitato i Beatles come icone. Si sono appropriati della loro musica, della loro immagine, delle loro parole, hanno destrutturato il fenomeno Beatles riarticolandolo ai propri fini. In una generazione che rifiutava l’identificazione con i padri (che avevano scatenato due guerre mondiali) e che, come Amleto, oscillava tra immagini di sé estremamente contraddittorie, i Beatles arrivano a proporre un’immagine di fuga, un modello sufficientemente compatibile sia con il desiderio di rottura e cambiamento dei giovani che con un ideale di autorealizzazione che, nonostante i suoi aspetti antisociali per l’epoca, è ancora ampiamente dentro il recinto della famiglia e della società borghese. Ma il vero colpo lo fa l’industria culturale. Fabbrica di sogni, se vogliamo, o, con Marx, produttrice di consumatori per i propri prodotti, attraverso i Beatles riesce a toccare le corde profonde di una enorme massa di giovani, intercetta quel bisogno di leggerezza e di cambiamento, riesce a guidarlo attraverso la musica, come prima aveva fatto con il cinema e le sue immagini tra sogno e realtà. I Beatles sono, senza volerlo, il colpo perfetto. Dopo di loro l’industria musicale moltiplica i fatturati ed il potere di persuasione, rende necessarie macchine portatili per restare sempre in contatto con il suono dell’anima. I giovani di tutto il mondo scoprono la musica come un destino. Ancora oggi negli auricolari di milioni di abitanti delle attuali società policulturali essa canta una mitologia planetaria lungi dall’essere esaurita nonostante il crollo dell’industria musicale del dopo Napster.
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