Documento sulle aree protette elaborato da CIPRA Italia ed approvato dal Consiglio direttivo in
occasione della riunione del 16 luglio 2015
In questi mesi nel nostro paese si susseguono le proposte di istituzione di nuovi parchi naturali, in Appenino
come sulle Alpi e lungo le coste marine. Si tratta di un segnale culturale importante, che va raccolto e al
quale vanno offerte risposte, anche istituzionali. CIPRA Italia propone una riflessione sul futuro delle aree
protette portando forte attenzione alle possibili azioni che permettano una reale connessione, anche
operativa, fra le tante azioni che i territori vanno sviluppando: tutto questo deve avvenire, a nostro avviso,
nel rispetto delle linee guida che ci sono proposte dal protocollo delle aree protette e del paesaggio della
Convenzione delle Alpi recuperando verso le aree protette i contenuti strategici offertici dalla Carta
Europea del Turismo sostenibile.
Mentre raccogliamo un insieme di diffusi segnali positivi in materia di protezione del territorio e del
paesaggio, alcune amministrazioni regionali impongono alle aree protette restrizioni economiche sempre
più pesanti che le stanno portando all’asfissia operativa. Alcuni parchi regionali non dispongono più delle
risorse necessarie alla loro minima sopravvivenza, cioè a garantirne la gestione operativa, le azioni di
conservazione, le occasioni di sviluppo nonostante quasi tutte queste aree protette siano state capaci di
attingere a contribuzioni dirette dell’Unione Europea e a stringere patti con iniziative di carattere
privatistico.
Vanno poste alcune riflessioni anche sui diversi disegni di legge che intendono modificare l’attuale legge
quadro nazionale, la 394/1991. E’ necessario raccogliere la sfida che ci porti ad avere enti parco più snelli,
quindi più efficienti nelle risposte dovute alle popolazioni che li abitano e alla gestione efficace dei beni
comuni. I parchi naturali devono occuparsi dei temi riguardanti lo sviluppo socio – economico delle aree
interessate, uno sviluppo che non consumi né alteri in negativo gli equilibri ambientali, devono investire
nell’ambizione di essere laboratori di buone pratiche tese alla conservazione del paesaggio e alla tutela, o
meglio ancora, al miglioramento e riqualificazione della biodiversità, pratiche che concilino attività
economiche con il miglioramento qualitativo dei territori, dei paesaggi, dei beni presenti, di innovazione
anche nel mondo del lavoro, investendo in ricerca, in una tessitura territoriale di patti d’azione con altri enti
simili diffondendo cultura conservazionistica condivisa e partecipata delle scelte.
Mentre si incentiva il valore della biodiversità non vi è dubbio alcuno che si costruisca anche sviluppo
economico oltre a progresso culturale e scientifico. Non va poi sottaciuto quanto sta avvenendo, in modo
drammatico, attorno al Parco Nazionale dello Stelvio. Mentre ricorre la celebrazione dei suoi 80 anni dalla
istituzione (24 aprile 1935) la Commissione dei 12 ed il Governo, sostenuti dall’azione diretta delle province
autonome di Bolzano, Trento e dalla Regione Lombardia, stanno smembrando il parco nazionale in tre
minime realtà regionali. Il più grande parco delle Alpi viene così destrutturato nel più assoluto silenzio –
assenso della politica nazionale e locale.
In questo contesto tanto contraddittorio e ad oggi privo di risposte dirette CIPRA Italia si chiede quale
futuro possano avere le proposte di istituzione di nuovi parchi nazionali o regionali, come sta avvenendo
attorno al Monviso, al Centro Cadore o al Consiglio. Per fare questo siamo consapevoli che dovremmo
riuscire a rispondere ad alcune domande sempre più presenti nel dibattito sociale leggendo le aree
protette non come valore ideologico assoluto, ma come territori che hanno saputo e possono in modo
ancor più incisivo, legare il dovere della conservazione a quello delle riposte economiche alle popolazioni
che nei parchi vivono.
E’ utile chiedersi e rispondere se ad oggi le norme rigide e il controllo severo abbiano funzionato sul piano
dei risultati della conservazione del territorio. In molte realtà questi vincoli non hanno funzionato perché in
un paese come quello italiano le deroghe rivolte alla speculazione, anche dentro i parchi, sono risultate
devastanti. In altre situazioni l’assoluta rigidità vincolistica, non recependo le trasformazioni naturalistiche
in atto, hanno portato anche a perdite di biodiversità. Ed in altre realtà ancora il parco è stato vissuto come
museo incapace di promuovere e sostenere economie, incapace di assicurare nuovi lavori. E un po’
ovunque, va detto con coraggio, dove non si è attuata una zonizzazione partecipata, il parco ha portato le
popolazioni locali a deresponsabilizzazione totale verso il dovere della conservazione del territorio, del
paesaggio, delle culture locali. E’ quindi anche utile e necessario interrogarsi in modo laico se per
proteggere la natura oggi sia necessario istituire nuovi enti, strutture burocratiche, che abbiano il compito
di tutelare ambienti pregiati. Prima di istituire nuove aree protette non è forse il caso di portare a
funzionalità piena quelle esistenti e trovare altre forme di intervento che abbiano lo scopo di tutelare gli
ambienti pregiati? Dobbiamo chiederci quale risposta offriamo alle tante aree SIC e ZPS diffuse sulle nostre
montagne che da anni attendono, invano, il varo di valutazioni di incidenza partecipate e condivise dai
territori. Quale risposta offriamo nelle Alpi ai tanti comitati, alle associazioni, alle istituzioni che hanno
individuato sul territorio parchi locali, parchi fluviali, parchi agricoli, geoparchi, biotopi che poi vengono
abbandonati, non gestiti, che si ritrovano ad essere isole chiuse destinate ad un veloce degrado o a subire
modifiche che le snaturano o le impoveriscono del bene che andava tutelato. E quali risposte offre oggi
l’ambientalismo alpino ai sempre più diffusi territori ( anche e specialmente quando esterni ai parchi) che
vengono abbandonati perché non più coltivati, gestiti, curati causa l’abbandono della montagna da parte di
attività primarie quali l’agricoltura, l’allevamento o la selvicoltura? Oppure territori affidati in gestione cieca
e priva di cultura ad una zootecnia che in aree ormai vaste sta assumendo le caratteristiche degli
allevamento intensivi tipici delle grandi pianure? Quali risposte possiamo offrire ai tanti giovani che
intravvedono nell’agricoltura di montagna una nuova forma di imprenditoria capace non solo di offrire al
consumo prodotti biologici, sani, ma anche di garantire, attraverso la coltivazione e il recupero dei terreni
di alta quota, sicurezza alle popolazioni delle vallate e delle pianure, capaci di garantire ospitalità, cultura,
formazione naturalistica, filiere dirette fra autoproduzione agricola e turismo, gastronomia a chilometro
zero? Ed oltre a questo siamo capaci di garantire nel tempo la conservazione e il miglioramento del
paesaggio, la fruibilità e quindi la conoscenza del territorio? E a mantenere sul territorio proposte che
investono nelle tipicità e nelle identità? Non è forse venuto il momento di riconoscere agli alpicoltori, cioè
ai contadini di montagna, un ritorno anche economico del servizio che stanno offrendo a tutti gli abitanti
sia della montagna che delle pianure, alle generazioni future, un servizio rivolto a chi ci è lontano, ai tanti
soggetti che oggi non “vediamo” o percepiamo perché lontani nel tempo? E non è venuto il tempo di
leggere i parchi con un’ottica meno chiusa, museale, attestata sui principi della conservazione passiva
certamente necessaria negli anni pioneristici della parcheologia (1800 -1980), ma a nostro avviso, proposta
oggi bisognosa di una revisione? L’ambizione è quella di arrivare a vivere il territorio intero come si
trattasse di un’area protetta. La biodiversità rappresenta la principale attrattiva per la quale si visita un
parco e dunque si tratta di rendere fruibile ciò che si conserva, in una sorta di circolo virtuoso, capace di
generare ricchezza sia per lo Stato, che affida al Parco il compito di conservare un bene collettivo, un
patrimonio indisponibile come la fauna, sia per il territorio, che pretende, a compensazione dei vincoli che
la presenza del Parco impone, azioni di sviluppo economico e sociale.
Le aree protette in rete. L’esempio del Trentino.
Anche in settori esterni al tradizionale ambientalismo si alza forte la richiesta di una cultura della vivibilità
diffusa che attraverso percorsi di assunzione di responsabilità chiamino le popolazioni locali a diventare
vigili tutori del territorio. Sono settori che chiedono partecipazione, investimento in cultura, l’abbandono di
steccati ideologici, non per avviare un processo di consumo di territorio, ma perché le aree protette vissute
come investimento e non più come separazione, possono “fecondare” culturalmente anche i territori oggi
non istituiti come parchi. Un esempio di rilancio della cultura conservazionistica e di nuova lettura delle
aree protette ci viene proposta dalla Provincia autonoma di Trento. La legge sulla montagna n°11, 5 maggio
2007, innovatrice in questo tema, non è stata calata dall’alto: è nata certamente dalla necessità
istituzionale di un riordino dell’insieme delle leggi provinciali a tutela dell’ambiente, ma anche dalla spinta
innovativa proveniente dall’associazionismo ambientalista e dai tanti comitati locali che si sono battuti negli
ultimi decenni contro l’imposizione di infrastrutture pesanti sul territorio o per il rilancio ambientale e
paesaggistico di aree pregiate. Dal 1980 in poi su tutto il territorio della provincia si è assistito ad un fiorire
di proposte di istituzioni di nuovi parchi: provinciali (Lagorai, Baldo, Lessini, Bondone, Latemar, Val
Monzoni), di parchi locali, di biotopi, di parchi fluviali (Sarca, Avisio, Noce, Brenta), di parchi agricoli (del
Garda), geoparchi (Adamello Brenta). Nel frattempo l’unione Europea dava vita alle aree SIC e ZPS, in
provincia venivano istituiti i due parchi provinciali (Paneveggio – Pale di San Martino e Adamello – Brenta).
Un patrimonio di cultura, di natura, di identità fra loro diverse incredibile, ma che non trovava connessioni
né sul territorio né sotto il profilo sociale ed economico. Ci siamo trovati in presenza di un insieme di isole,
a volte incapaci di comunicare fra loro, immaginiamoci se disponibili a varare politiche di gestione
condivise. Ci si è quindi chiesti come fosse possibile, senza incontrare opposizioni preconcette, offrire
risposta al bisogno di natura che una collettività sempre più ampia andava richiedendo, come evitare
sovraccarichi burocratici, come dare risposte a soggetti che storicamente il territorio lo lavorano o lo
praticano, come coinvolgere in modo attivo chi fino a ieri era contrario alla istituzione di un qualunque
percorso conservativo e nemmeno prendeva in considerazione il tema della biodiversità: alcuni settori del
mondo agricolo, i cacciatori, i pescatori. Si è provato non tanto ad evitare i conflitti, ma attraverso una loro
diluizione, con percorsi partecipativi diretti, portarli a delle soluzioni provando ad avvicinarli alle culture
proposte negli ultimi decenni dagli ambientalisti. Con un obiettivo concreto sempre presente, ambizioso:
creare e diffondere condivisione.
Un impegnativo lavoro di confronto costruito dalla Provincia con le associazioni di categoria, quelle
ambientalistiche, alpinistiche (la SAT) e le amministrazioni pubbliche proprietarie dei territori ha portato
alla ideazione delle reti delle riserve. Il lavoro è tuttora in corso e 7 delle previste 15 riserve sono di fatto
istituite e funzionanti. Può una simile pratica istituzionale e democratica, così dinamica, essere trasferita in
una dimensione nazionale, o alpina, ovviamente recependo gli opportuni adattamenti ai territori
interessati?
Cosa si intende per “rete delle riserve”?
Una rete delle riserve si pone come obiettivo di unire territori ad elevato livello di biodiversità che già si
trovano istituiti o da leggi europee (Rete Natura 2000, quindi SIC e ZPS), o nazionali (parchi nazionali e
riserve nazionali), parchi regionali e provinciali, biotopi, parchi locali, parchi fluviali, geoparchi, parchi
agricoli e creare fra loro connettività dirette tramite piani di gestione che vanno istituzionalmente e
socialmente condivisi attraverso processi partecipativi di particolare incisività. Gli accordi sono volontari, a
tempo determinato (accordi temporanei di gestione variabili fra i tre e i cinque anni) e devono mettere
insieme almeno due municipalità e più aree tutelate. Anche altri territori alpini, in forme istituzionali
diversificate, stanno assumendo questa metodologia di lavoro, per oggi investendo in piani territoriali
regionali (Valle d’Aosta o Friuli Venezia Giulia).
Quali benefici comporta per gli attori del territorio?
La rete delle riserve permette connettività fra i beni comuni della fauna, della vegetazione e della risorsa
idrica, del paesaggio: partendo da questo si può arrivare alla definizione, in tempi non lontani, attraverso la
pianificazione urbanistica, di ampi e motivati scientificamente corridoi ecologici. Molte situazioni di aree
protette oggi sono abbandonate al divenire naturalistico, in alcuni territori questo stato di fatto porta alla
diminuzione, se non alla scomparsa di specifica biodiversità. La rete delle riserve permette di riqualificare,
ricostruire, rendere accessibili, fruibili, anche sotto il profilo culturale e l’investimento turistico, territori
destinati all’abbandono. L’azione diretta dell’uomo influisce direttamente nella promozione di nuove
professionalità, nella innovazione, nella occupazione, sull’offerta turistica, sulla formazione, sul recupero di
identità perdute e offrono al mondo agricolo dell’alta montagna ulteriore qualità nel lavoro (sentieri
cultura, osservatori, coltura delle torbiere, accompagnatori di territorio, boscaioli, fattorie didattiche,
ricerca naturalistica e scientifica). Si può intervenire, in modo scientifico, nel recupero dei pascoli d’alta
quota abbandonati, nel fermare l’avanzamento del bosco sia in quota che in spazi tradizionalmente dati per
perduti (o per coltivarlo anche in situazioni economicamente non convenienti), nella gestione di prati aridi,
nel recupero dei paesaggi dei fondovalle (aree agricole di pregio, sentieri, terrazzamenti), gestione
faunistica e della fauna ittica. Per la prima volta i settori della cultura del territorio, del turismo, della
agricoltura, della ricerca entrano fra loro in sinergia nel rilancio di ampi territori altrimenti destinati
all’abbandono, senza imporre al paesaggio nuove infrastrutturazioni.
Quali garanzie? Partecipazione e pianificazione.
Ad oggi in alcune aree la gestione di un’area protetta rimane avulsa dal contesto sociale che la vive. In altre
zone sono attivi percorsi partecipati guidati con professionalità specifiche e strutturati in tempi certi. Noi
siamo convinti che la prima garanzia del successo di un’area protetta è legata strettamente alla
partecipazione e al profilo della condivisione maturata. Questo percorso ci evita i conflitti che tendono
sempre più di escludere dalle zone destinate a parco gli abitati, che si cerchi di limitare questi territori ai
santuari dedicati alla natura, al monumento specifico. Magari, come sovente accade in Italia, per poi
dimenticarli. La rete delle riserve finalmente avvicina chi vive nelle aree protette ai temi della
conservazione e li rende partecipi prima della pianificazione e poi auspicabilmente del loro successo, anche
attraverso nuove forme di occupazione. Trovandoci in presenza di accordi temporanei e di volontariato, i
piani di gestione vanno aggiornati periodicamente: è quindi possibile, sempre attraverso la condivisione
sociale, portare modifiche motivate alle scelte che vengono proposte nelle norme o nei regolamenti di
azione diretta. Con questo strumento la conservazione da passaggio passivo si tramuta in azione, quindi in
occasione di lavoro per più operatori del territorio. Attraverso queste azioni, in modo nemmeno tanto
indiretto, si sviluppa un percorso formativo che prova a coinvolgere tutti gli ambiti sociali, anche chi, fino a
poco tempo prima, viveva nei confronti dei parchi un conflitto che sembrava insuperabile, privo di
qualunque possibilità di dialogo. Questi processi hanno bisogno di una specifica pianificazione che non è
solo urbanistica, ma accoglie in sé valori scientifici e ricadute economiche dirette, quindi lavoro, sul
territorio interessato. Una pianificazione partecipata è quindi essenziale nel portare il parco naturale ad
essere vissuto come valore sia per la popolazione locale che per chi il territorio lo visita.
Nelle Alpi come agire?
Con questo documento CIPRA Italia rinnova l’importanza strategica che le aree a parco, sia quelle nazionali
che quelle regionali, rivestono nella politica della conservazione della natura e del paesaggio nel nostro
paese.
a) Siamo sempre più convinti che quanto costruito dal mondo scientifico del passato e recepito dalle
istituzioni pubbliche vada mantenuto e rafforzato.
b) CIPRA Italia ritiene vadano recuperati in tempi brevi, su tutto il territorio alpino, i contenuti del
protocollo della Convenzione delle Alpi “Protezione della natura e del paesaggio” specialmente nei passaggi
che invitano alla definizione certa di connessioni fra aree meritevoli di pregio e di attenzioni
conservazionistiche. E’ quindi doveroso, laddove le condizioni lo permettano, incentivare accordi
transfrontalieri tesi alla istituzione di parchi europei (Alpi marittime – Mercantour, oppure Stelvio –
Engadina con il parco PEACE e con grande efficacia la sperimentazione ormai consolidata in atto nel parco
della Vanoise). Laddove le coesioni istituzionali risultino problematiche è possibile, attraverso accordi di
gestione e di programma, costruire unità di intenti che permettono la condivisione di progetti tesi alla
conservazione, al recupero di aree degradate, alla tutela della biodiversità e del paesaggio, allo sviluppo
anche economico delle popolazioni che vivono nei territori interessati.
c) CIPRA Italia ritiene che l’esempio ormai consolidato e definito della Rete delle riserve proposta dalla
Provincia autonoma di Trento sia un esempio da monitorare e da valutarne le possibilità di estenderlo alle
Alpi, anche nel profilo istituzionale nazionale e internazionale.
d) La zonizzazione delle aree protette, tramite la pianificazione, permette l’individuazione di diversi livelli di
conservazione e offre alle istituzioni la possibilità di graduare le azioni dell’uomo raccogliendo anche le
legittime esigenze di chi nei parchi vive: rete dei servizi, possibilità di lavoro, sviluppo di sinergie fra i diversi
settori economici.
e) E’ importante che tutte le aree protette, mantenendo le loro specificità, uniformino le certificazioni di
profilo internazionale attraverso un coordinamento alpino incisivo.
f) La Carta Europea del Turismo Sostenibile è uno strumento di indirizzo delle buone pratiche che permette
alle aree protette di offrire alle popolazioni locali sviluppo di alta qualità e percorsi formativi che portino le
popolazioni stesse a maggiori profili di condivisione delle scelte che vengono approvate. Questa Carta
sostiene in modo convincente la necessità di ampliare e consolidare le filiere economiche dei territori e a
costruire fra le stesse sinergie che le rafforzano.
g) I Piani di Sviluppo Rurale (PSR) dovrebbero incentivare in modo prioritario chi lavora i territori dei parchi
e dell’insieme delle reti delle riserve. Le aree protette sono luoghi di sperimentazione di buone pratiche e
sono un investimento dell’intera umanità rivolto alla conservazione dei beni comuni per le future
generazioni. Non vi è alcun dubbio che mantenere in montagna e all’interno delle aree protette presidi di
attività umana compatibili con la conservazione del bene risulti essere un investimento che porta beneficio
all’intero paese e alla comunità internazionale.
h) E’ necessario indirizzare la pianificazione sia urbanistica che economica delle aree protette all’interno di
linee guida che devono essere emanate dallo Stato (o Regioni). I piani parco devono ovunque garantire la
unitarietà della gestione dell’area protetta ed essere proiettati ad un investimento che garantisca alle
popolazioni che vi vivono non solo sviluppo ma anche progresso culturale. La pianificazione deve essere
costruita con il protagonismo attivo delle istituzioni locali e dei portatori di interessi collettivi, nel rispetto
del mondo scientifico e della ricerca naturalistica e ambientale.
i) Prendendo spunto dal lavoro svolto dalla Fondazione Dolomiti UNESCO che ha investito nella costruzione
di reti istituzionali, culturali e progettuali su temi diversi della gestione di un territorio fragile, complesso e
ricco di importanti diversità, CIPRA Italia ritiene che il lavoro di rete, quando partecipato e condiviso, possa
rappresentare una via d’uscita alla proposta di nuove aree protette. Oggi ci aspetta un passaggio culturale
importante: avere la capacità di unire in un unico disegno di gestione le aree delle alte quote ai fondovalle,
costruire sinergie operative fra i bisogni, i lavori, i servizi delle popolazioni di montagna con quelli delle
pianure e delle aree metropolitane. Un simile processo non può trovare successo attraverso politiche
centralistiche e impositive, ma solo con la costruzione di apposite reti che riescano a fare sintesi di alto
profilo fra le esigenze della conservazione dei beni naturali e quelli dello sviluppo economico delle
popolazioni che vivono la montagna ed i suoi ospiti.
Il Consiglio Direttivo di CIPRA Italia