Fra le notizie passate ingiustamente sottotono ce n’è una che dovrebbe renderci euforici. Per la sua portata, ma anche per il significato che ha per tutte le mobilitazioni che paiono condannate a inevitabile disfatta.
Nella Renania tedesca, lo scorso 6 ottobre, una fiumana di 50mila tra attivisti e cittadini – sfidando un’imponente e violenta operazione di sgombero da parte della polizia – è riuscita a impedire il disboscamento di una foresta di dodicimila anni, ponendo un primo blocco alle attività estrattive di carbone che fanno della zona uno dei distretti industriali più inquinati d’Europa.
È una conquista strappata sul campo grazie a un agguerrito gruppo di ambientalisti (Ende Gelände) che da sei anni occupa l’Hambacher Forst, l’antica foresta che negli scorsi decenni è stata quasi integralmente distrutta dall’industria estrattiva gestita dal colosso energetico RWE.
Ora rimane solo il 9% della sua estensione originaria, 200 ettari circondati da un’area desertica, la più estesa miniera di lignite del continente, responsabile da sola dell’emissione di un terzo di anidride carbonica dell’intera Germania.
Un paesaggio lunare che continua a espandersi, nonostante il vertice di Parigi sul clima abbia ammesso che solo una significativa riduzione dei combustibili fossili può evitare l’aumento di temperature superiore alla soglia critica di 1,5°C.
Mentre l’apposita commissione per il carbone, istituita dal governo Merkel, continua ad occuparsi di progetti meramente speculativi di “greenwashing” in vista della transizione energetica del 2035, le enormi escavatrici ampliano il raggio d’estrazione, deforestano e fanno perfino dislocare villaggi.
Il potere contrattuale della RWE infatti è tale da pagare gli abitanti perché si spostino altrove, disgregando comunità e impedendo attività agricole a causa delle falde contaminate.
Per difendere l’ultimo polmone verde della zona chiedendo la dismissione immediata dell’energia fossile, nel 2012 gli occupanti dell’Hambacher Forst iniziano a costruire case sugli alberi e ponti sospesi, dedicando a querce e faggi nomi di villaggi aerei, come Oaktown o Beechtown. Costruiscono capanne termoisolate, alimentate ad energia solare ed eolica, e dotate di connessione internet, con cui svolgono attività politica direttamente dalla foresta.
Così l’Hambacher Forst, anche nei rigidi inverni, viene difesa da una trentina di occupanti permanenti fino a un paio di migliaia, che accorrono durante la stagione di disboscamento per incatenarsi agli alberi.
Organizzano barricate anche all’interno della cava d’estrazione distendendosi sulle escavatrici per impedirne l’attività.
Lo scorso settembre la lotta pareva giunta a un doloroso termine, quando poliziotti e forestali dell’RWE hanno iniziato ad abbattere alberi e a distruggere i villaggi degli occupanti, arrestando numerosi attivisti.
Scontri molto violenti, che hanno pure portato alla morte di un ventisettenne – Steffen M. – precipitato da un ponte aereo per sfuggire all’arresto. In un estremo tentativo di difesa c’è anche chi si è arrischiato a nascondersi in un tunnel sottoterra, a metri di profondità, per bloccare l’avanzata degli escavatori.
Il massiccio sgombero e i primi alberi abbattuti avrebbero fatto desistere i più, invece in pochi giorni le manifestazioni scandite dallo slogan “Hambi bleibt!” (Hambi resta!) si sono moltiplicate, coinvolgendo l’opinione pubblica e ampi strati della popolazione.
In varie città tedesche, semplici cittadini con bambini a seguito hanno sfilato con fusti e germogli; ogni giorno ha visto azioni simboliche, occupazioni temporanee e critical mass, con il supporto anche dall’estero e la solidarietà di organizzazioni meno antisistemiche, come Greenpeace, i cui attivisti hanno scalato l’ambasciata tedesca a Londra appendendo lo striscione Exit coal. Protect Hambach Forest.
Di fronte a tanta pressione, le istituzioni giuridiche della Renania, pur di non cedere agli occupanti, hanno trovato appiglio nella scoperta di un raro pipistrello che risiede nelle antiche cavità degli alberi di Hambach. Chiamando in causa il rischio di estinzione dell’animale notturno, l’alto tribunale amministrativo di Münster lo scorso 5 ottobre – dunque poche ore prima del previsto inizio delle operazioni – ha decretato la fine temporanea del disboscamento, senza però darla vinta agli attivisti, che in quello stesso giorno si riversavano nel distretto occupando foresta e cave.
Eppure, né il pipistrello né le altre 139 specie protette della foresta avrebbero generato tanto clamore senza i 50mila occupanti dell’Hambacher Forst.
L’eco mediatica produce ancora forti onde, tanto che pochi giorni fa è stata avanzata a RWE la proposta milionaria di acquisto della foresta da parte di Ecosia, il motore di ricerca internet alternativo, che investe i propri profitti in opere di rimboschimento.
Una proposta provocatoria ma non troppo, per segnalare che il profitto basato sullo sfruttamento indiscriminato di risorse ambientali comuni d’ora in poi non avrà vita semplice come in passato.
Ne sono esempio anche le molte battaglie per beni pubblici messi in pericolo da logiche private o nazionali (come nel caso della foresta primordiale di Białowieża, di cui abbiamo riportato qui), mobilitazioni che iniziano da uno sparuto numero di occupanti – spesso visti come esagitati – e poi riescono a conquistare una tutela giuridica attraverso il supporto internazionale.
Ma non sempre il sigillo delle istituzioni pone fine alla lotta. Anche ad Hambach, dopo questa storica vittoria, gli attivisti sono subito tornati a ricostruire il villaggio aereo, determinati a occupare la foresta, finché tutte le attività estrattive della zona non giungano a termine.
“Vogliamo segnalare” – dice un’attivista – “la volontà di un cambiamento sistemico radicale. Abbiamo impedito l’abbattimento di duecento ettari di foresta, ma è solo un piccolo passo. Finché continua questo sistema economico e produttivo, ci sarà sempre sfruttamento. Rimanere passivi vuol dire prender parte alla distruzione”.
Non molto diverso da ciò che ricordava anche Naomi Klein durante il vertice di Parigi, se c’è qualcosa di buono nelle catastrofi climatiche è che finalmente siamo messi alle strette, solo così capiamo che è proprio questo il momento per chiedere e costruire il cambiamento.