Tra i vari modelli di conservazionismo sviluppati nell’affanno di preservare la natura dall’attacco dell’uomo, il conservazionismo fortezza si caratterizza per demarcare aree dal forte interesse naturalistico da cui estromettere tutte le attività umane. Un tipico esempio sono i parchi nazionali americani a partire dallo Yellowstone fondato per primo nel 1872 e che oggi copre una superficie di poco inferiore a 9000 km2 . Concepito come riserva integrale e gestito col duplice interesse di preservarne la bellezza ma anche di renderlo fruibile alle masse di turisti in cerca di un’esperienza diretta con la natura, è diventato una meta indiscussa del turismo verde e ha contribuito a creare un modello economico molto seguito della conservazione (nel 2019 è stato proclamato il 61° parco nazionale americano)

Puntando a soddisfare le aspettative dei turisti interessati più alla flora e alla fauna che alle popolazioni locali si è finiti, però, col consolidare nella nostra mentalità il concetto sbagliato che qualunque attività umana (compresa quella indigena) nell’area protetta sia superflua o addirittura dannosa e che comunque debba essere controllata dall’ente parco. Per avere una misura di questo sbaglio basta considerare quanto a lungo non è stata compresa l’utilità della pratica indigena degli incendi controllati che permettono di prevenire incendi ben più gravi e dannosi. Si arriva così al concetto di conservazione fortezza, ovvero per preservare un’area protetta diventa necessario estromettere da essa tutte le attività umane con gravi ricadute gravanti sui i popoli tribali che, paradossalmente, hanno da sempre vissuto le loro terre implementandone la biodiversità come mutuo vantaggio per la propria sopravvivenza.

Passando dai tempi del colonialismo in cui l’uomo occidentale riteneva gli indigeni inferiori e incapaci di sfruttare appieno le risorse delle loro terre e quindi utilizzava tutti gli espedienti (violenza compresa) per impossessarsene, a oggi in cui l’uomo occidentale continua ad appropriarsi della terra indigena con la scusa della salvaguardia della biodiversità, il furto di terra indigena si evolve, cambia pelle, ma resta fortemente ancorato nella nostra società. Inoltre, con l’espediente della conservazione della biodiversità, l’ente parco in qualità di amministratore dell’area protetta, spesso dichiara guerra al bracconaggio rendendo illegale lo stile di vita indigeno (basato sulla caccia e la pesca) e costringendo le popolazioni tribali ad abbandonare le loro terre ancestrali. Non mancano casi in cui, per raggiungere questo obiettivo, i guardiaparco stessi fanno ricorso a violenze di ogni genere spesso con conseguenze letali. I Baka in Congo e in Camerun, i Boscimani in Botswana, i Jenu Kuruba in India sono solo alcuni esempi lampanti di questo meccanismo denunciato da Survival, ONG internazionale che da 50 anni si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni.

La soluzione potrebbe passare attraverso 2 strumenti giuridici: la Convenzione internazionale ILO 169 (del 1989) e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (2007). In questi 2 documenti si riconoscono come fondamentali il diritto di autoidentificazione e autodeterminazione di ogni popolo, il diritto allo stile di vita tradizionale, il diritto alla continuità storica rispetto ad una certa area occupata ma soprattutto il diritto ad essere consultati e a partecipare al processo decisionale che riguarda la gestione della propria terra e delle proprie abitudini di vita specificando che quest’ultimo diritto è tale solo se viene garantita l’effettiva possibilità di modificare le decisioni che verranno prese. In Europa solo Danimarca, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Spagna e di recente la Germania hanno ratificato la ILO 169; d’altra parte tra coloro che l’hanno adottata figurano paesi sudamericani in cui non si può certo dire che i popoli indigeni se la passino bene (per essere eufemistici) e questo ci porta a concludere che c’è ancora molto da fare per affermare il vero ruolo dei popoli indigeni. Se davvero vogliamo difendere la biodiversità e la nostra terra forse sarebbe il caso di prendere spunto da chi non ha mai smesso di prendersene cura e da sempre ne ha fatto la principale, se non l’unica, ragione di vita.

 

https://www.ilo.org/dyn/normlex/en/f?p=NORMLEXPUB:12100:0::NO::P12100_ILO_CODE:C169

 

 

 

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