“Definire concretamente i diritti linguistici è indubbiamente una bellissima impresa, già da tempo degna di essere realizzata. Auguro pieno successo al vostro progetto” dichiarò Nelson Mandela nel 1997, dando il proprio appoggio alla Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici, della quale fui sottoscrittore all’atto della proclamazione, il 6 giugno 1996 a Barcellona.
Le sue parole trovarono eco in quelle di Desmond Tutu: “Credo sia diritto di ognuno esprimersi nella lingua da lui stesso scelta. Riconoscendo il valore delle lingue individuali si riconoscono la dignità e il valore della nostra fratellanza umana”.
Parole molto sagaci, che ricordano il Manifesto di Rauma (1980): “Noi sottolineiamo che la ricerca di una propria identità ci ha indotto a concepire l’esperanticità quasi come l’appartenenza per propria scelta a una minoranza linguistica diasporica”. Non a caso gli esperantiani hanno formalmente aderito alla Dichiarazione di Barcellona, come Mandela. Ciò significa che essi hanno una risposta chiara per la domanda “Cosa è una lingua?” (articolo 7, paragrafo 2): Ogni lingua è una realtà collettivamente compiuta e all’interno di una comunità essa diviene strumento di coesione, identificazione, comunicazione ed espressività creativa, disponibile per l’uso individuale.
Nelson Mandela morí a novantacinque anni nella sua patria, il Sud-Africa. Era l’ultimo ancora iscrivibile nella lista delle icone laiche del XX secolo, la cui battaglia per la libertà e l’uguaglianza di diritti si sia congiunta a una rivoluzione nazionale, nel segno dell’unità e della non violenza. Lista il cui nome piú rappresentativo è Gandhi, accompagnato da tutti gli apostoli della pace e delle relazioni fra i popoli, includendo un “naturamiko” come Edmond Privat.
Giorgio Silfer